La zona di interesse
(The Zone of Interest, USA-GB-Polonia/2023) di Jonathan Glazer (106')
Rudolf Höss e famiglia vivono la loro quiete borghese in una tenuta fuori città, tra gioie e problemi quotidiani: lui va al lavoro, lei cura il giardino e i figli giocano tra loro o combinano qualche marachella. C'è un dettaglio però. Accanto a loro, separato solo da un muro, c'è il campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf è il direttore.
- Oscar 2024 per miglior film internazionale e per miglior sonoro;
- BAFTA 2024 per miglior film britannico e per miglior suono;
- Festival di Cannes 2023, Grand Prix Speciale della Giuria e FIPRESCI (Concorso);
- European Film Awards 2023 per miglior sonoro;
- National Board of Review Award 2023 per migliori cinque film stranieri dell’anno.
Come molti sanno, si parla di Auschwitz, ma in un modo del tutto inedito, originale, forse nell’unico modo possibile: senza mostrare direttamente lo sterminio degli ebrei, ma consegnandoti sotto la pelle tutta la disumana violenza di quell’inferno concentrazionario.
Zona d’interesse era il gelido eufemismo usato dalle SS per denominare Auschwitz. Non sorprende, quindi, che le povere e innocenti persone destinate ad essere gasate e incenerite fossero chiamate “carico”, come si fa con le merci, per cancellarne la natura umana.
La stessa, terribile, fabbrica di morte che in questo film viene vista in una prospettiva opposta: quella della villetta, subito all’esterno del campo, dove vive con la moglie, i cinque figli e la servitù il famigerato comandante Rudolf Höss. Proprio lì, dentro il “suo” lager, il criminale di guerra quarantacinquenne morirà impiccato nell’ottobre 1947, dopo regolare processo.
Non vediamo nulla di Auschwitz, ma la sostanza atroce del genocidio arriva allo spettatore attraverso l’esistenza placida, a suo modo “normale”, della famigliola nazista, neanche troppo disturbata dai rumori che arrivano: grida, spari, latrati di cani, treni, clangori, invocazioni di pietà e ordini feroci. Nelle stanze della linda casetta, le donne tedesche si spartiscono i vestiti migliori delle signore ebree appena gassate, mentre i bambini giocano nella serra o fanno il bagno nella piscina. “Stiamo vivendo come abbiamo sempre sognato, questo è il nostro spazio vitale” fa lei al marito, il quale, grazie all’efficienza dimostrata nello sterminare e liberarsi dei corpi, sta per fronteggiare, dopo una parentesi a Berlino, l’incarico più gravoso: l’arrivo da Budapest di 700 mila ebrei ungheresi.
Qualcuno, benché antisemita, sceglierà pure di andarsene per sottrarsi a quell’enorme ipocrisia o forse solo all’imbarazzo.
Michele Anselmi, Cinemonitor