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copertina di Bologna Estate racconta #15

Bologna Estate racconta #15

PhMuseum Days: la fotografia contemporanea in un festival

La fotografia è un gioco a tre. Fotografo, spettatore e soggetto fotografato sono le variabili di un’equazione in continuo cambiamento.

Ogni immagine, attraverso le nostre emozioni e percezioni, ci conduce a interpretazioni e punti di vista differenti.

La fotografia contemporanea rompe ulteriormente le regole. L’artista non si limita a raccontare, ma invita a immaginare e a costruire nuove realtà con la mente. In questo processo, ogni scatto diventa un campo di sperimentazione e l’osservatore è spinto a interrogarsi su ciò che vede. Sei pronto a metterti in gioco? Cosa succede quando ti avvicini così tanto alla realtà da perderne la visione d’insieme? Closer è il tema del PhMuseum Days 2024, festival bolognese alla sua quarta edizione. Ne parliamo con Giuseppe Oliverio (G) e Camilla Marrese (C).

 

Partiamo dalle origini: come e quando nasce PHMuseum?

 

G: PhMuseum è un progetto che ho fondato nel 2012 a Buenos Aires. I primi 5-6 anni eravamo in Sud America, la piattaforma era solo online su phmuseum.com. Poi piano piano sono iniziate le nostre attività principali: una linea editoriale con articoli, interviste, review e una serie di concorsi per scoprire e supportare fotografi di tutto il mondo con premi e grant. Insomma era tutto online. Nel 2017 sono tornato a vivere a Bologna e si sono create le possibilità per avere uno spazio fisico. Nel 2020 in via Paolo Fabbri abbiamo aperto PhMuseum Lab. L'anno successivo abbiamo lanciato PhMuseum Days. Entrambi sono nati da una forte esigenza di connetterci di persona con il nostro pubblico e con il territorio. In questi 12 anni abbiamo accumulato una grande esperienza e vogliamo condividerla con le nuove generazioni. 

 

C: Ho iniziato a collaborare a gennaio del 2023. Sono una visual editor: mi occupo della linea editoriale e della selezione e cura della nostra piattaforma online. Con la mole di lavoro che comporta un festival ho iniziato ad affiancare Giuseppe nella curatela. Oggi decidiamo insieme  cosa raccontare e con quali artisti.



Entriamo un pò nel tema di quest’anno: Closer è un invito a farsi più vicino, a non guardare la realtà nel suo insieme ma a osservarne una parte, un dettaglio. Perché avete scelto questo tema per il 2024? Quale tipo di messaggio vorreste trasmettere ai visitatori?

 

G: Guardare la realtà in maniera diversa, cambiare il proprio punto di vista apre una prospettiva molto interessante. Affidarsi a narrazioni che sono da un lato molto approfondite, in cui il fotografo ha ragionato a lungo e dall’altro analisi che abbracciano la soggettività, dove l'artista è solo una porzione dell’insieme. Dopo il tema della tecnologia, quest’anno volevamo qualcosa che fosse più vicino all’uomo. Storie più intime o analisi in cui il fotografo si fosse focalizzato su un’unica tematica per un lungo periodo e con un grande coinvolgimento. Closer è una declinazione del linguaggio fotografico. Ci sono tanti lavori che offrono uno spunto su quanto un'immagine possa essere soggettiva e avere tanti layers. Se vedi solo una foto ti fai un'idea, se vedi un corpo di lavoro te ne fai un’altra.

 

Una piccola riflessione: ma la fotografia non fa già un pò questo di per sé, selezionare una porzione di realtà nello scatto e nel racconto?!

 

G: Esatto però fino a un decennio fa la fotografia veniva associata alla verità. La fotografia come documento, linguaggio oggettivo. Ma già prima dell'arrivo dell’AI, le cose stavano cambiando. La fotografia, come dicevi giustamente tu, è qualcosa di soggettivo perché inquadra solo una porzione di realtà. La scelta è fatta a monte, da un essere umano, e in base alla destinazione del progetto e al background dello spettatore, il significato può cambiare.  È molto importante fare divulgazione perché gran parte del pubblico ha ancora una visione della fotografia come prova della realtà.

 

C: Se posso aggiungere qualcosa, bisogna pensare a Closer come a un avvicinarsi così tanto da limitare il proprio campo visivo. Non si vede più l’insieme ma il dettaglio. Non si ha più una prospettiva oggettiva ma personale però non meno vera perché consente una visione differente e nuova. 

Io e Giuseppe abbiamo riflettuto a lungo su quali potessero essere i progetti che ci appassionano. Questo approccio personale, che non è applicato solo al mondo interiore o famigliare, spazia e usa la fotografia come mezzo per creare un nuovo legame con la realtà.

Ti faccio un esempio: Kush Kukreja, presente al festival, è un artista indiano che racconta il fiume Yamuna. Attraverso la fotografia crea nuove metodologie per studiare questo fiume. Misura il diametro dei piloni, la velocità dell'acqua, estrae sostanze chimiche dalle quali crea fotografie in camera oscura che diventano elementi del paesaggio. I suoi autoritratti sono simili a performance. Il suo è un approccio che va oltre l'idea tradizionale di fotografia. Non cattura il momento ma lo pensa, creando nuovi punti di vista.

Ti faccio anche un altro esempio. Pacifico Silano è un artista che lavora solamente sulle immagini d’archivio. Si avvicina al soggetto e ritaglia porzioni di foto prese dai riviste erotico/pornografiche degli anni ’70. Piccole porzioni di pagine diventano qualcosa di completamente nuovo.

 

Anche quest'anno il festival si svolgerà in diverse location di Bologna, tra cui lo Spazio Bianco di Dumbo. Come contribuiscono questi luoghi all’esperienza complessiva per lo spettatore?

 

G: Io consiglio di fare il giro completo. Sono solo quattro location, non è un festival particolarmente dispersivo. Meglio partire da Dumbo, perché si può avere una prima overview.

Lo Spazio Bianco ha quel mood post-industriale che dialoga bene con i lavori in mostra. Se poi si va in via dell'Abbadia sulle bacheche di Cheap con i muri scrostati e un’atmosfera un po' retrò, ci si accorge come il linguaggio della fotografia contemporanea dialoga in maniera diversa a seconda degli spazi che occupa. E questo si nota ancora di più in via dell’Archiginnasio, luogo suggestivo che ben si presta a un dialogo tra passato e presente, tra mura che trasudano la storia di Bologna e installazioni di immagini che raccontano il presente del nostro Paese con una strizzata d’occhio al futuro. La mattina presto l’ambiente è quasi mistico.

Il giro si conclude nel nostro “capannoncino”, al momento sovrastato di materiali ma che stiamo allestendo per la mostra di Rita Puig Serra.

 

PhMuseum porterà i fotografi della open call all’Archiginnasio, come l’anno scorso. 40 immagini per 40 fotografi provenienti da tutto il mondo. Qual è il leitmotiv che unisce queste immagini?



G: Si tratta di una selezione molto libera, come libera è stata l’interpretazione del tema da parte di tutti i fotografi. Con questa open call sono arrivati più di mille lavori, un successo che ha dimostrato un forte interesse per il festival.

La mostra riflette una diversità di approccio in una narrativa totalmente aperta che lo spettatore può interpretare in funzione della propria sensibilità e delle proprie esperienze.

Ci tengo molto perché è un progetto di persone e muove una comunità. Si svolge in uno spazio pubblico prestigioso. E qui ringrazio il Comune di Bologna, l'Archiginnasio e Bologna Estate perché ci hanno investiti di questa grande responsabilità e fiducia.

 

C: Aggiungo solo che la scelta delle singole immagini è stata pensata per creare nuove prospettive inusuali attraverso punti di ripresa inaspettati, illusioni ottiche, avvicinamenti. Tutti vediamo la stessa porzione di mondo ma in tantissimi modi diversi. E questo renderà la fotografia contemporanea sempre un linguaggio attuale. In ogni immagine, in ogni storia un fotografo capace di fare proprio il mezzo, ti mostrerà il mondo in un modo nuovo perché è il suo.

 

La mostra “Anatomy Of An Oyster” di Rita Puig-Serra è stata un’anticipazione del festival. In che modo il suo lavoro si inserisce nel tema generale di questa edizione?

 

G: Il suo lavoro guarda da vicino una storia personale e di violenza  molto dura subita dalla sua famiglia. Si inserisce nel tema del festival perché mette una lente d’ingrandimento sul suo passato e perché ha un approccio contemporaneo, metaforico, in cui l'artista riflette tanto sulla storia che sta raccontando, sull’emozione che vuole trasmettere e su come usare il linguaggio per farlo.

Usa la metafora dell’ostrica: quando si forma un corpo estraneo all’interno del mollusco, quest’ultimo lo ricopre con una sostanza cristallina fino a formare una perla per difendersi da questa intrusione.

Rita racconta in maniera molto poetica il trauma che ha vissuto e il percorso per farlo uscire e condividerlo con il pubblico.

Ci è sembrato un bellissimo modo per aprire il festival. 



Decalcomania, una mostra senza fotografie. Sembra una provocazione, e forse lo è. La tecnica viene prima del soggetto da ritrarre, l’ultima macchina o obiettivo sono la prima cosa a cui pensare. È una mostra pop e nostalgica. Gli adesivi sono emblemi dell'immagine-decorazione e della riproducibilità. In che modo questi elementi si relazionano con una mostra di fotografia contemporanea?

 

C: Il lavoro di Thomas Mailaender parla di fotografia come fenomeno culturale e sociale. Si distacca dall’immagine in sé per raccontare il mondo che c’è intorno da un punto di vista amatoriale senza chiamare in causa artisti e professionisti. Si concentra in quella che forse rappresenta la percentuale più alta di individui interessati alla fotografia: gli amatori. Un insieme di persone ossessionate dalla tecnica e dall’ultimo modello. Diventa una storia di oggetti, ma il suo lavoro va oltre. Gli adesivi simboleggiano l'idea di possedere questi brand e la loro evoluzione tecnologica. Non colleziona oggetti, ma cataloghi di quegli oggetti. È una mostra di elementi grafici che raccontano un universo socioculturale.

 

G: In realtà è una mostra che genera immagini. Non sono però appese sulle pareti di Dumbo, ma si formano nella tua testa. Vedendo l'adesivo Leica anni '70, uno può pensare a quando si è comprato la sua prima macchina fotografica, a quando ha desiderato un certo tipo di obiettivo, alla mamma che aveva sempre la Leica con sé, a quella ragazza con cui è uscito che gli parlava della propria fotocamera.

Quindi, come dicevi tu, è una provocazione ma sottolinea un aspetto importantissimo: il lavoro del fotografo è un input che dialoga con il tuo background culturale. Quindi sarà una mostra in cui ognuno vedrà le proprie immagini.

 

PhMuseum esce dall’Italia: e va in Svezia e Messico, due Paesi davvero agli antipodi per clima, politica, cultura e società. Quali mostre portate e che tipo di collaborazione c’è per queste esposizioni? 

 

G: Voglio sottolineare l'aspetto importantissimo delle collaborazioni. Noi come realtà di base in Italia che dialoga con tante realtà che si occupano di fotografia contemporanea in giro per il mondo, ci teniamo tanto a unire le forze. Lo facciamo per i concorsi, per le masterclass, per il festival. Abbiamo conosciuto il progetto Nevven grazie all’esperienza che hanno fatto a Bologna. La loro galleria madre è in Svezia. Ci è piaciuto molto il loro approccio all'arte contemporanea e li abbiamo coinvolti per fare una mostra insieme. Il lavoro di Emma Sarpaniemi è un lungo progetto sull’autoritratto, riflette sulla rappresentazione e l’identità di ragazza nel ventunesimo secolo. Cerca di scardinare stereotipi e ruoli che vengono imposti nella nostra società. Ma lo fa in una maniera molto giocosa, positiva e propositiva. Sperimentando e prendendosi dei  rischi. Invece con Portofino Dry Gin, il nostro sponsor che ci ha sempre supportati, abbiamo invitato per il terzo anno un artista a interpretare The Italian Riviera, la zona dove nasce questo gin. È un posto iconico della nostra penisola dove si incontrano la storia, il turismo e il “posh”, il lusso. Grazie ai contatti del brand in Messico, abbiamo avuto la possibilità di realizzare una mostra lì. Sarà una collaborazione fra la fotografia contemporanea messicana, la nostra realtà e quella di Portofino. C’è stata una open call e abbiamo selezionato una fotografa portoghese che vive in Messico da diversi anni. Ha un approccio alla Martin Parr con un certo grado di humor. È riuscita a mettere in risalto i contrasti della città ligure: il mare, i ricordi dell'estate italiana retrò anni '60 ma anche il glam e il posh, i turisti stranieri, gli orologi e le Ferrari. Tutto quello che rende Portofino unica nel nostro immaginario.

 

PhMuseum ha una forte vocazione internazionale. E infatti, in origine, nasce a Buenos Aires. Cosa ti ha spinto a fare questo progetto?

 

G: Avevo l'esigenza di dedicarmi a un progetto in cui credessi davvero. Dopo aver lavorato due anni come consulente, fatto la triennale in economia all’università Bocconi e studiato un anno a Londra, sentivo che la mia vocazione era un’altra: iniziare un progetto imprenditoriale.  Volevo che fosse contemporaneo ma anche socialmente utile. All’inizio è stato difficile e parecchio costoso. Oggi sembra preistoria. Ora è molto facile fare una piattaforma e un sito web, ci sono tantissimi framework e preset. Aggiungici che ho sempre avuto la passione per la fotografia. Stava diventando il linguaggio della contemporaneità, ma non c’è mai stata un'educazione alla lettura e interpretazione delle foto. Non si insegna a scuola. Impari l’alfabeto e a leggere i testi ma non sei educato all’immagine, nonostante ricopra una parte ampia e profonda della nostra vita. Quindi sono partito proprio da qui. 

Ora la nostra missione è portare sempre più persone ad avere una conoscenza più consapevole del linguaggio visivo.

 

Perché avete scelto il linguaggio fotografico contemporaneo? E perché avete pensato che Bologna ne avesse bisogno?

 

G: Perché il linguaggio si sta evolvendo molto in questi ultimi anni. Se nel ventesimo secolo il fotogiornalismo e la fotografia documentaria sono stati le declinazioni del linguaggio fotografico più presenti e più utilizzate adesso c'è un'evoluzione che coinvolge tantissimi autori un pò in tutto il mondo e che rende la fotografia un linguaggio sempre più sofisticato ma anche più libero. Qui al PHMuseum crediamo che questo possa ispirare molto il pubblico. È un tipo di esperienza più vicina all'arte contemporanea. È un altro concetto rispetto al fotoracconto a cui siamo più abituati grazie alla lettura di magazine e giornali. 

 

Sicuramente siamo più abituati a una fotografia, passami il termine, più classica e quindi più facile da codificare mentre il linguaggio contemporaneo è un pò meno accessibile.

 

G: Meno accessibile ma molto ricco. Può attivare ragionamenti, scardinare stereotipi e condividere informazioni in una maniera molto potente e profonda. Il nostro ruolo è divulgare e rendere comprensibile questa fotografia al pubblico. E lo facciamo attraverso il festival, le visite guidate, i talk e la presenza degli artisti. Noi però siamo aperti a tutti i tipi di fotografia, ci tengo a dirlo. Sulla piattaforma puoi trovare anche progetti di fotogiornalismo e documentari. Ma per il festival sentiamo la necessità di condividere una fotografia più concettuale.

Perché Bologna? Perché oltre a essere la città in cui siamo cresciuti, ha tutte le caratteristiche per essere protagonista di una promozione della cultura e un'apertura internazionale che siano utili alle nuove generazioni e a tutte quelle persone che hanno questo tipo di interesse.

 

Allora ti chiedo com'è cambiato il linguaggio fotografico? Cosa diventerà la fotografia quando le persone non riusciranno, e già sta succedendo, a distinguere tra un'immagine generata dall'intelligenza artificiale e una no? Avrà ancora senso parlare di analisi e comprensione di una foto?



G: Nella fotografia, l'AI non ha fatto che esacerbare alcune tematiche che già erano molto presenti nella discussione: per esempio la veridicità. Possiamo ancora fidarci delle immagini? 

Inizialmente la fotografia era documento, poi però negli anni si è sempre più scollata da questa funzione diventando molto altro. L’AI ci mette davanti alla necessità di interrogare in maniera più critica le immagini e, come dicevi tu, di saperle leggere come sappiamo leggere un testo. E aggiungo non soltanto leggere l'immagine singola ma essere capaci di leggerne un corpo che è fatto da tanti frame che creano un dialogo, una relazione e una storia. È importante riuscire a strutturare una grammatica visiva nello stesso modo in cui lo facciamo con il testo.

 

C: Se l'intelligenza artificiale ha, in un certo senso, costantemente fatto parte della fotografia che per esistere è sempre stata legata a una macchina, a un insieme di tecniche e di software, il fatto che adesso sia possibile generare immagini con intelligenza artificiale fa sì che la cosa più importante sia diventata l'idea e quindi la storia. È rilevante riflettere sull’approccio concettuale perché è proprio quello che che fa la differenza. Trovare una connessione con una persona che racconta una storia da un punto di vista assolutamente personale significa che non è accomunabile a nessun altro.

 

Ci sono altre realtà come voi in Italia che si occupano di fotografia contemporanea? Quali sono un po' le vostre competitor o colleghe?

 

G: Noi siamo un progetto molto completo. Nel mondo ci sono poche organizzazioni che hanno una piattaforma online, uno spazio fisico e un festival e che fanno tutte queste attività: promozione, formazione, curatela.

In Italia ci sono tante eccellenze ma sono più settorializzate. Penso a PhEST di Monopoli. È un festival in un contesto bellissimo, organizzato da Arianna Rinaldo, ex curatrice di Cortona on the Move e Giovanni Troilo, fotografo e regista, nominato al David di Donatello. Loro hanno una grande esperienza e coprono uno spettro che va dal documentary alla fotografia contemporanea.

Molto interessante è anche il lavoro di PhotoVogue a Milano, una realtà con cui collaboriamo. Da sempre si occupa di moda ma grazie ad Alessia Glaviano che ha una grandissima conoscenza della fotografia contemporanea, è diventato una fucina per nuovi talenti che sviluppano molti progetti interessanti.

Tara L.C. Sood, una delle artiste in mostra, ci ha conosciuto tramite PhotoVogue, che l'ha spronata a uscire dal fashion per fare un lavoro autoriale. 

 

C: Io aggiungerei il Torino FotoFestival. Inaugurato quest’anno e curato da Salvatore Vitale e Menno Liauw. È assolutamente concettuale  e contemporaneo. Menzionerei anche Fotografia Europea a Reggio Emilia che mescola linguaggi più tradizionali a lavori molto innovativi.

Mi sento di includere anche il libro fotografico, che è un veicolo fondamentale insieme alla mostra. Ci sono delle librerie sul territorio italiano che da tantissimo tempo portano avanti un discorso sull'immagine contemporanea. Ti cito Mi Camera a Milano e Leporello a Roma. Un bellissimo lavoro sulla narrazione fotografica  lo stanno facendo gli amici di Sugar Paper con cui collaboriamo. Hanno aperto uno spazio a Modena, fanno corsi di fotografia improntati a imparare il linguaggio contemporaneo e hanno una biblioteca molto fornita dove fanno presentazioni con artisti di altissimo livello anche internazionale.



Come vedi il futuro del festival e quali sono gli obiettivi a lungo termine per PhMuseum?

 

G: Dopo quattro anni si può fare già un bilancio. Per noi è un progetto di lungo periodo. Molto rischioso perché comporta una spesa di energia enorme però ci crediamo tanto. Può fare da trait d’union con un pubblico del settore.

L'anno scorso abbiamo raggiunto circa diecimila visitatori tra mostre pubbliche gratuite e quelle con ingresso a pagamento, ma siamo solo in cinque, un team piccolissimo.

Quello che so è che ci piacerebbe rimanere un festival con un forte senso di appartenenza al territorio e alle persone che lo abitano. Cercheremo di crescere rimanendo legati alla nostra identità. 

 

Laura Bessega per Bologna Estate