Dino Campana
Più di tutti, anzi egli solo, era l'esempio, la figura del vagabondo, dell'uomo, la cui esistenza, quella fugacemente da noi avvertita, era costituita dalle tappe, sconclusionate, di un solo e lungo viaggio. E, come i veri vagabondi, Campana non portava con sé che dei ricordi, delle impressioni: delle immaginazioni cavate dal passaggio nei luoghi, paesi, strade e montagne, intorno ai quali la sua mente, mai quieta, intesseva precipitosamente e con ritorni continui, la trama della sua vita. (G. Raimondi).
Dino Campana nasce a Marradi, paese della Romagna toscana, nel 1885. Suo padre è maestro di scuola elementare. La madre, donna severa e cattolica fervente, è morbosamente legata al figlio maggiore e lo trascura. Intorno ai quindici anni gli vengono diagnosticati i primi disturbi nervosi. Frequenta il ginnasio e il liceo a Faenza e si diploma nel 1903 a Carmagnola (TO) presso il Regio Liceo Baldessano.
Al rientro a Marradi i rapporti con la famiglia e i paesani si fanno difficili. Dino va incontro a frequenti crisi nervose e repentini sbalzi di umore, a litigi, soprattutto con la mamma. Tenta di svagarsi allontanandosi dal paese, trascorrendo qualche ora con gli abitanti dei villaggi vicini, camminando sulle sue montagne.
Nel 1903 si iscrive una prima volta all'Università di Bologna. Frequenta il corso di laurea di chimica pura della Facoltà di Scienze. Prova anche ad entrare alla scuola allievi ufficiali di Ravenna, ma viene scartato e congedato.
Nel 1905 si sposta a studiare a Firenze, ma dopo pochi mesi è di ritorno a Bologna, questa volta iscritto al corso di chimica farmaceutica. Tenta di passare quattro esami, ma è bocciato in fisica. Invece di frequentare le aule di chimica, è spesso in quelle di letteratura.
Nel settembre 1906 è internato una prima volta nel manicomio di Imola, dove trascorre circa un mese. Un giorno d'estate del 1907, mentre è a Bologna per il quarto anno di chimica, si trova "per svago" alla stazione e vede un treno in partenza. Ci sale sopra e si chiude nel gabinetto fino a Milano. Poi passa in Svizzera clandestinamente e da lì arriva a Parigi. Gli anni tra il 1907 e il 1909 sono un oscuro periodo di vagabondaggi.
Quando alla fine ricompare a Marradi viene arrestato. Dopo un breve ricovero nel manicomio di San Salvi a Firenze riparte per il Belgio, ma all'inizio del 1910 è nuovamente fermato e internato nella Maison de Santé di Tournay.
A Bologna con i goliardi
Rientrato in Italia, comincia per lui un periodo di relativa stabilità, che coincide con un nuovo soggiorno bolognese, tra il 1912 e il 1913.
Il 22 novembre 1912 si iscrive alla Facoltà di chimica dell'Università. In questo periodo entra in contatto e comincia a frequentare gruppi di goliardi e di nottambuli.
Dimostrava alcuni anni più di noi. Tarchiato, biondastro, di mezza statura, si sarebbe detto un mercante, a giudicarlo dall'apparenza, un eccentrico mercante con magri affari. Le commesse dei bar, gli estranei lo guardavano con circospetta ilarità. Aveva una lunga capigliatura biondo-rame, folta e ricciuta, che gli incorniciava un viso di salute: due baffetti che s'arrestavano all'angolo delle labbra, e una barbetta economica che non s'allontanava troppo dal mento.
(F. Ravagli)
Abita in via Zamboni 32, in una stanza di Palazzo Paleotti. Poco tempo dopo - per una serie di intemperanze, che lo portano anche in prigione per qualche giorno - da qui è invitato ad andarsene e viene accolto dall'amico Olindo Fabbri in via Castiglione 59.
Pur destando curiosità e preoccupazione tra i compagni, il suo comportamento tra gli alambicchi e i sofisticati macchinari del laboratorio di chimica è "sempre normale, correttissimo". Ma frequenta il suo corso saltuariamente. E' più probabile trovarlo tra i banchi della facoltà di Lettere, alle lezioni del prof. Alfredo Galletti, critico ed erudito, contrario a Hegel e a Croce. Secondo Bejor, anzi, "a Bologna non frequentò altra aula".
Con alcuni goliardi, che ne riconoscono l'eccellenza intellettuale, stringe una certa amicizia. Ad esempio con Federico Ravagli, Olindo Fabbri, Mario Beyor. Quest'ultimo è testimone del suo irrompere esuberante nella combriccola dei suoi compatrioti:
In una sera, mentre, dopo cena, si passeggiava sotto i portici solitari di via Farini, accennando in coro a stornelli toscano-romagnoli, ecco mettersi a capo del gruppo uno, improvvisamente apparso ... con voce stentorea, alternata di toni gravi ed acuti - battendo il grosso tacco ritmicamente al canto -, richiedere a gesti risoluti, imperiosi da noi una serietà ed un impegno da corale liturgico.
Di solito, però, Dino è poco socievole, nei gruppi si isola volutamente. La sua solitudine è un fantasticare assorto, una specie di torpore, che contrasta con l'animazione tipica di locali come il bar Nazionale. Anche in mezzo alla confusione, egli riesce a trovare la concentrazione necessaria per lavorare sulle sue carte, per rivedere i suoi preziosi manoscritti.
Accanto a un atteggiamento solito, fatto di silenzi e fantasticherie, costituiscono una eccezione alcuni atti anomali, eccessivi, che però valgono ad alimentare la sua leggenda di personaggio bizzarro e sono sintomi di uno squilibrio psichico profondo, come nel caso di questo episodio, accaduto all'incrocio tra via Rizzoli e via Indipendenza:
fu preso da un accesso di improvviso furore: e, impugnando una chiave, spezzò l'uno dopo l'altro i vetri delle mostrine dei negozi. Nessuno osò avvicinarlo: e la sua opera di distruzione fu interrotta soltanto dal laborioso intervento di numerosi vigili.
Altre manifestazioni ostili sono rivolti contro i cani o contro le donne, quasi sempre viste come meretrici, esseri diabolici.
L'8 dicembre 1912 sul numero unico del foglio goliardico "Il papiro" escono : Montagna - La Chimera, Le cafard e Dualismo - Ricordi di un vagabondo, firmati Campanone, Campanula e Din Don. E' convenzione che gli studenti non mettano il proprio nome in fondo ai pezzi. Gli pseudonimi in questo caso sono inventati da Federico Ravagli, responsabile del foglio e amico di Dino. I tre brani diventeranno, con molte correzioni, parte dei Canti Orfici.
La collaborazione ai fogli universitari si ripete nel febbraio 1913 su un altro numero unico, "Il Goliardo". Nella sesta pagina è pubblicata la prosa Torre rossa - scorcio, che sarà poi la prima parte de La notte dei Canti Orfici. Il testo consegnato dal poeta è ridotto, sul giornale, per motivi di spazio.
Nel febbraio 1913 Dino supera con 27/30 l'esame di Fisica, dal quale era stato cacciato sei anni prima. Subito dopo però si trasferisce a Genova, poi a La Spezia, in Sardegna ... e in breve sfuma il desiderio della famiglia di vederlo sistemato come farmacista.
Più avanti confesserà:
L'ultimo anno che ero a Bologna andavo un pò all'Università, alle lezioni di letteratura: non mi occupavo più di tanto. Volevo studiare chimica, ma poi non studiai più nulla perché non mi andava; mi misi a studiare il piano. Quando avevo denaro spendevo tutto quello che avevo. Un pò scrivevo, un pò suonavo il piano. Così finii per squilibrarmi completamente. Era meglio se studiavo lettere.
Dai Canti Orfici a Castel Pulci
Il tentativo di pubblicare i suoi lavori e di farsi conoscere negli ambienti letterari dell'avanguardia lo porta a Firenze, dove consegna a Giovanni Papini e Ardengo Soffici, redattori della rivista futurista "Lacerba", il suo manoscritto. La perdita di esso - sarà ritrovato, tra le carte di Soffici, solo nel 1971 - apre un grave contrasto con i letterati delle "Giubbe rosse" e lo costringe a riscriverlo a memoria, con enorme sforzo mentale.
L'aiuto finanziario di alcuni paesani permette finalmente la pubblicazione dei Canti Orfici nel 1914 a Marradi, presso la tipografia di Bruno Ravagli. Da allora il poeta comincia a vendere personalmente le copie del suo libro nei caffè di Firenze e di Bologna. Secondo una testimonianza dell'amico Binazzi
andava di tavolino in tavolino per i caffè più noti a vendere i suoi canti. E spesso scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva con suo riso di bel fauno ... strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che l'acquirente non le avrebbe mai capite.
Si racconta che l'odiato Marinetti riceva al Caffé San Pietro a Bologna una copia con la sola copertina.
Nel 1916 inizia una burrascosa relazione con la scrittrice Sibilla Aleramo, interrotta all'inizio del 1917. Essa lascia un interessante carteggio, dove è manifestata tra l'altro l'ammirazione della donna, "incantata e abbagliata insieme" dalla poesia del marradese. Ormai "triste a morte", Campana tenta di arruolarsi come ufficiale e di partire per la guerra. Chiede aiuto a Bacchelli e al direttore del "Carlino" Aldo Valori. Ma ad una loro verifica, egli risulta riformato "per vizio di mente".
In una lettera a Ravagli dell'autunno 1917 ricorda che "Bologna buona e casalinga, tutta cucinata da voialtri com'è, mi ha lasciato una buonissima sensazione d'intimità". Ma con altri confidava un parere molto diverso: "Bologna! Città di beghine e di ruffiani, mai un omicidio, mai un fatto di sangue!". E giurava che nella città delle due torri non sarebbe mai più tornato.
Nel 1918 avviene l'ultimo, definitivo internamento in manicomio, con la diagnosi di una grave forma di psicosi schizofrenica. Da allora si hanno poche frammentarie notizie. Abbandona la produzione creativa, mentre si conferma, nelle testimonianze di alcuni compagni di sventura, accanito lettore e persona solitaria e tranquilla.
Era un gran letturale lui ... si metteva col libro negli angoli, si appoggiava ai muri e strisciava, strisciava fino a terra ... poi leggeva il libro per terra ... stando seduto per terra.
Muore nel 1932 nel manicomio di Castel Pulci, vicino a Scandicci, per una forma di setticemia. E' sepolto poco lontano: prima nel cimitero e in seguito nella chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo (FI).
- Annamaria Andreoli, Sibilla Aleramo, in: Italiane, a cura di Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia, Roma, Dipartimento per l'informazione e l'editoria, 2004, vol. 1: Dall'Unità d'Italia alla prima guerra mondiale, pp. 5-8
- Marco A. Bazzocchi, Allievi di Carducci e amici di Campana: i goliardi bolognesi e la letteratura, in: Gaudeamus igitur: studenti e goliardia 1888-1923, Bologna, Bologna University Press, 1995, pp. 39-43
- Mario Bejor, Dino Campana a Bologna 1911-1916, a cura di Antonio Castronuovo, Roma, Elliot, 2018
- Greta Bilancioni, Dino Campana e Bino Binazzi a Bologna, in: "Il carrobbio", 28 (2002), pp. 251-259
- Bologna. Parole e immagini attraverso i secoli, a cura di Valeria Roncuzzi e Mauro Roversi Monaco, Argelato, Minerva, 2010, pp. 124-129
- Maria Letizia Bramante Tinarelli, L'ambiente letterario del primo cinquantennio, in: Bologna Novecento. Un secolo di vita della città, a cura di Maria Letizia Bramante Tinarelli, Castelmaggiore, FOR, 1998, p. 57
- Carlo Donati, Strada Nove. La via Emilia e le sue curve, Ancona, Affinità elettive, 2020, vol. 1., pp. 233-235
- Enrico Falqui, Per una cronistoria dei Canti orfici, Firenze, Vallecchi, 1960, pp. 13-17
- Itinerari letterari, a cura dell'Assessorato al Turismo e dell'Assessorato alla Cultura della Provincia di Ravenna, (ecc.), Ravenna, Tipografia Moderna, 2006, pp.103-108
- Carlo Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana. Lettere scelte (1910-1931), a cura di Tiziano Gianotti, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994
- I portici della poesia: Dino Campana a Bologna (1912-1914), a cura di Marco Antonio Bazzocchi e Gabriel Cacho Millet, Bologna, Patron, 2002
- Federico Ravagli, Dino Campana e i goliardi del suo tempo, 1911-1914. Autografi e documenti, confessioni e memorie, Bologna, CLUEB, 2002
- Gianni Turchetta, Dino Campana. Biografia di un poeta, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 115-127
- Sergio Zavoli, I giorni della meraviglia. Campana, Oriani, Panzini, Serra e i giullari della poesia, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 36-37